La quattordicesima donna uccisa

 La quattordicesima vittima di violenza maschile si chiama, Domenica Menna,  24 anni:   è stata uccisa il 4 febbraio scorso a Parma. Il suo ex compagno dopo un appostamento l’ha inseguita  e le ha sparato, poi si è suicidato. Non accettava la fine della relazione. A Roma la scorsa settimana,  un uomo ha ucciso il figlio di due anni, gettandolo nel Tevere.  Ha voluto punire la compagna dopo una lite. 

Dopo questi atroci delitti seguono da parte delle istituzioni le dichiarazioni di adottare misure efficaci, di approvare interventi per affrontare  la violenza maschile sulle donne. Nel frattempo il numero di femminicidi aumenta ogni anno  mentre  le istituzioni  tagliano le risorse finanziarie che erano state destinate al problema.

L’anno giudiziario  aperto nel 2012, ha denunciato   un aumento dei casi di violenza: stalking. maltrattamenti familiari e stupri di gruppo. La violenza maschile  sta diventando emergenza sociale nel nostro Paese, anche se persiste la tendenza a rimuovere o a normalizzare il fenomeno: la violenza alle donne  viene decodificata come un destino naturale; sulle vittime viene fatta ricadere da una parte la responsabilità di evitare la violenza quando si tratta di uno stupro, e  la responsabilità di “uscire dal silenzio”,  quando si tratta di violenza familiare; l’incoraggiamento a denunciare è un invito sospeso nel vuoto delle politiche  a sostengo di coloro che ne sono colpite. Le condizioni nelle quali vivono le vittime di violenza sono del tutto ignorate: dipendenza economica dagli autori del maltrattamento, grave carenza di strutture di accoglienza  per donne e minori vittime di violenza familiare; la scarsa formazione da parte delle forze dell’ordine che troppe volte invitano le donne a non “rovinare il padre dei loro figli”, o a non “istigare” l’ira del marito, crea una seconda vittimizzazione; infine l’incapacità di leggere il fenomeno della violenza familiare  nelle aule dei tribunali nega la  giustizia e la tutela dei  diritti. 

Le iniziative realizzate spesso sono solo di facciata: gli spot di comunicazione sociale sono  spesso sbagliati sul piano del linguaggio e delle immagini e paradossalmente alimentano gli stereotipi e i pregiudizi sulla violenza alle donne; la redazione di protocolli di intervento  e buone prassi concordate tra servizi sociali, forze dell’ordine e associazioni di volontariato sulla spinta di iniziative seppur dettate da buona volontà, sono estemporanee e non strutturate.

   Nello stesso tempo i centri antiviolenza chiudono o sono costretti a ridurre gli interventi ed attività a sostegno delle vittime di violenza a causa dei tagli ai finanziamenti, oppure per esaurimento di risorse umane perché operano per anni e anni solo contando sulla forza del volontariato.

 La scorsa estate la relazione del comitato Ombra sull’applicazione della Cedaw – la Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione sulle donne, adottata dall’Onu nel 1979 e a cui l’Italia aderì negli anni ’80 –  ha denunciato delle resistenze ad attuare le raccomandazioni per affrontare le discriminazioni . Dal rapporto è emerso  il ritratto di  un Paese misogino, arretrato e bloccato in una sorta di involuzione del rapporto uomo-donna, dove nemmeno le  vittime di violenza sessuale riescono a trovare pieno rispetto e giustizia.  Non esiste ancora nell’ordinamento giuridico italiano una definizione corretta della violenza di genere, né tantomeno una raccolta di dati statistici nazionali sui femminicidi e il maltrattamento familiare.

La scarsa o inesistente volontà politica di apportare cambiamenti lascia terreno fertile alla esplosione di situazioni di violenza o discriminazione.

 Oggi,  6  febbraio 2012  ricordiamo la quattordicesima donna, e  un bambino di due anni assassinato dal padre in nome di un diritto – potere di vita e di morte ancora lontano dall’essere sconfitto.

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