Vanessa ventitrè anni, uccisa dal compagno, è stata la cinquantaduesima vittima di femmicidio dall’inizio dell’anno, in Italia. Femminicidio: una parola che è importante adoperare per non dimenticare il significato di queste morti. Donne uccise per aver disatteso le aspettative del partner o le aspettative sociali o della comunità di appartenenza. Aspettative su cosa debba dire, pensare, fare, essere una donna.
Oggi ho notizia di almeno altre due donne uccise dopo Vanessa. Le vite delle donne in questo Paese si staccano come foglietti dal calendario, sono ormai quasi quotidiane.
Eppoi ci sono le storie di stupri e aggressioni per strada, eppoi le innumerevoli storie quotidiane di violenza, di quelle che non arriveranno mai in cronaca nera ma che restano confinate all’interno delle quattro pareti di casa, o rivelate in confidenza tra amiche o sorelle.
Eppoi…tutte le storie che restano sommerse.
Tempo fa parlando con un’infermiera del pronto soccorso della cittadina dove lavoro con il centro antiviolenza, ho ascoltato la storia di una donna picchiata per anni dal marito: lo sapevano tutti al pronto soccorso ed in ospedale. Arrivava con fratture, tagli, ematomi, è andata avanti questa storia per anni anni. Alla fine non raccontava nemmeno più scuse. Stava in silenzio. Fino all’ultimo ricovero, poi era morta sotto ai ferri per emorragia interna. Era l’inizio del duemila e non c’era ancora il centro antiviolenza, e le storie di violenza delle donne non avendo un luogo dove potessero essere ascoltate, erano rimosse, schivate, scavalcate, disconosciute, ignorate dalla comunità.
La convinzione era che quelle “storie” fossero storie di altre donne, di altre città, anche se in quella piccola cittadina erano avvenuti tre femminicidi e stava per accaderne un altro.
“Qui no” dicevano. Invece anche lì come altrove avvenivano quelle “storie”.
Ho vissuto e vivo insieme alle altre donne, una strana contraddizione: da una parte, dopo gli anni successivi alla liberazione femminile mi sono sempre sentita come una donna che ha potuto scegliere tutto e fare molto di quello che desiderava: progetti di studio, di lavoro. Ho scelto. Ho scelto la maternità, e ho scelto il compagno e gli amori. Ho scelto di andar via e di restare. Ho fatto le mie scelte come tante mie coetanee allora, ed oggi, come fanno tante altre giovani donne.
Ma poi c’è sempre stata anche quella dimensione parallela, quella che se ne sta oggi come allora, in un angolo della memoria, accettata come un evento possibile, che facesse parte comunque del mio essere donna. Anche mia madre aveva avuto il suo: “Stai attenta”, mi diceva. E mi raccontava le accortezze, le strategie e come si era difesa in alcune situazioni. E come mia madre e come tante altre donne ho avuto il mio bagaglio personale di molestie, insulti, aggressioni, pedinamenti, inseguimenti da parte di uomini e ragazzi. Ed ho messo in atto le mie accortezze, strategie, e mi sono dovuta difendere: non erano criminali o malati, erano uomini ed erano ragazzi, come tanti altri uomini e come tanti altri ragazzi.