Laiga: “Può il battito cardiaco di un feto destinato comunque alla morte essere considerato più importante della vita della madre che lo porta in grembo? Esponendole ogni giorno al rischio, poi a volte muoiono davvero”
Il caso Valentina Milluzzo è assimilabile a quello di molte donne che cercano e vogliono una gravidanza. Per i pediatri rianimatori sotto le 21 settimane di gestazione non si rianima nulla, nel senso che non c’è possibilità che un feto possa sopravvivere al di fuori del corpo della madre che ha il sacco rotto ma allo stesso tempo non interrompere quella gravidanza espone a serio rischio di morte la donna e, ovviamente, se la madre muore anche quel figlio è destinato a perire.Nello specifico non sappiamo se Valentina avesse il sacco rotto e il suo ricovero, agli atti, è avvenuto perché le si stava dilatando l’utero e aveva quindi minacce di aborto spontaneo. Generalmente però la febbre alta in una gestante è sintomo di un sacco rotto da molto tempo, non da poche ore. Questa condizione le può costare la vita perché è come se avesse una ferita aperta che facilmente può infettarsi. Parliamo di sepsi, un’infezione che può essere mortale in poche ore e che compromette anche altri organi. Se infatti una donna ha il sacco amniotico rotto ed è verso la fine della gravidanza le si induce il parto entro 48 ore, come stabilito nelle linee guida, anche se in molti ospedali la prassi è di intervenire entro le 24.
RISCHIARE LA VITA INUTILMENTE
“Quando è impossibile che il feto sopravviva bisogna spiegare alla donna che la gravidanza non può andare avanti, e dirle che rischia la vita” continua Canitano, “L’atteggiamento corretto è metterle a conoscenza del fatto che potrebbero morire, quindi svuotare l’utero da questi feti che comunque non possono essere salvati. Non è raro che i medici obiettori di coscienza si rifiutino di intervenire se non quando la donna è in fin di vita perché ritengono che la presenza del battito configuri per loro un’impossibilità di agire quand’anche la madre abbia il rischio concreto di morte”.
Ricordiamo il caso di Savita Halappanavar, la donna irlandese che nel 2012 è stata lasciata perire in ospedale per una sepsi, alla 17esima settimana di gravidanza, perché i medici per motivi religiosi le hanno rifiutato l’intervento, perché il cuore del feto batteva ancora.
“Purtroppo queste cose in Italia avvengono tutti i giorni, anche se le donne non muoiono tutti i giorni”, spiega ancora la ginecologa di Laiga, “Ma se i colleghi obiettori espongono di continuo la madre a un rischio inutile, e badate bene, non perché il loro intervento vada in opposizione la vita del bambino – perché questi sono feti che non possono comunque essere salvati – è chiaro che a volte qualcuna muore anche. Ecco perché dobbiamo chiedere a gran voce che nelle emergenze ostetriche il battito di un embrione o di un feto non possa andare in prevalenza sulla vita della madre”.
“Quattro anni fa a Roma abbiamo avuto un caso del genere. Una donna incinta di 16 settimane aveva il sacco rotto ed era ricoverata in un ospedale religioso. I medici sapevano che non c’era nulla da fare per il feto ma si sono comunque rifiutati di intervenire. Gli ospedali laici non l’hanno accettata perché sostenevano che il caso era di competenza dell’ospedale di provenienza. Per avere salva la vita questa donna alla fine è dovuta andare ad Atene, pagando 4mila euro”.
PERMETTERE L’OBIEZIONE MA TUTELARE LA SALUTE DELLE DONNE: SOLUZIONI
Per Silvana Agatone, presidente di Laiga, esisterebbero soluzioni semplici ed efficaci, tutto sta nella volontà di cambiare le cose: “Ad esempio si potrebbe stabilire nei concorsi pubblici una quota del 50 per cento di posti riservata a medici non obiettori; creare delle unità operative negli ospedali solo per queste funzioni, in modo da meglio organizzare l’attività; studiare la richiesta di interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg) per capire se i non obiettori sono in numero sufficiente per soddisfare la domanda; prevedere almeno un ospedale per provincia dove si eseguano Ivg sia entro i 90 giorni, sia dopo questo termine; nominare a capo dei centri di diagnostica prenatale ginecologi non obiettori affinché, nel momento in cui venisse evidenziata la malformazione di un feto, la paziente fosse poi seguita in tutte le fasi successive, anche qualora decidesse di non proseguire la gravidanza.
LAIGA – CHI SIAMO
L’associazione LAIGA nasce dall’impegno di un gruppo di ginecologi non obiettori: la dott.ssa Silvana Agatone e la dott.ssa Concetta Grande, del servizio Applicazione legge 194/78 dell’Ospedale Sandro Pertini Roma; il dott. Franco Di Iorio e il dott. Marco Sani, del servizio Legge 194/78 del Policlinico Casilino Roma.